Tosca’s Rome. The Play and the Opera in Historical Perspective

SUSAN VANDIVER NICASSIO, Tosca’s Rome. The Play and the Opera in Historical Perspective, Chicago and London, University of Chicago Press, 1999, XVII-335 pp.

Uscito in tempo per il centenario della Tosca, il libro della Vandiver Nicassio – già cantante dalla carriera «too brief to be called undistinguished», attualmente docente universitaria – mira a dipingere il retroscena storico di un’opera la cui universalità «includes not only the personal, the emotional, and the artistic, but also the greaterworld of political and religious struggle, and the titanic clash between revolutionary and traditional world views» (p. XV).
     Programma eseguito con impegno ed entusiasmo che destano simpatia, anche se l’Autrice esagera nell’abbondanza e talvolta nella qualità della sua analisi: ci si può domandare se, piuttosto che un libro, un saggio non avrebbe appagato anche il più devoto cultore di Puccini. Così com’è, il lavoro descrive l’ambiente della Roma del 1798-1800 occupata prima dall’esercito rivoluzionario francese poi, in assenza del Papa, da quello borbonico napoletano; indi si dilunga sui particolari ambienti rappresentati dai tre protagonisti dell’opera – quello dei pittori, dei cantanti, e della polizia – e sui personaggi dell’epoca che avrebbero potuto fare da modelli, infine segue passo passo l’azione dell’opera accompagnandola con un commento storico.
     Permangono, alla fine di tanta lettura, due equivoci il primo dei quali è indicato dal sottotitolo del libro. Si può davvero definire l’opera di Puccini «the most obviously ‘historical’ opera in the active repertoire» (p. 2)? (Ma dove, allora, collocare il Don Carlos e il Boris Godunov?) Passato questo momento di euforia, l’Autrice riconosce nella prassi che l’opera è in gran parte priva di riferimenti storici diretti, i quali invece si trovano abbondanti nella sua fonte, la tragedia di Sardou. I librettisti di Puccini, e ancora più il compositore stesso, sfrondarono dall’opera gran parte dei personaggi e dettagli storici o pseudo-storici contenuti in quel drammone prolisso. L’Autrice si trova quindi, gran parte del tempo, a completare, commentare o contraddire non il lavoro di Puccini, tuttora splendidamente vivo, bensì quello di Sardou, definitivamente morto e sepolto come lo può essere una pièce di teatro del tutto legata al gusto della sua epoca.
     L’altro equivoco riguarda il tipo di storicità che dovremmo studiare nella Tosca. L’Autrice stabilisce all’inizio, richiamandosi a Michele Girardi, che la Tosca pucciniana è intrisa di religiosità, anticlericalismo e altri sentimenti tipici di ambienti italiani negli ultimi decenni dell’Ottocento, ma non si esime dall’informarci dettagliamente sulla ‘vera’ storicità della Roma dell’anno 1800.
     Con impegno ammirevole anche se non sempre giustificato, la Nicassio trae dagli archivi e dalla storiografia notizie sulle condanne a morte eseguite all’epoca, sul tempo che faceva nel giugno 1800, sull’impossibilità materiale di spostarsi per Roma nel tempo concesso ai personaggi (con annesse piante topografiche), sul tipo di carrozza che Tosca avrebbe potuto noleggiare per la fuga, e persino sulla paga dei componenti la banda militare di Castel Sant’Angelo.
     Da tanto impegno si ricava invero qualche particolare utile per la regia, quale l’ispirazione fantasiosa, piranesiana, del metodo di tortura praticato su Cavaradossi, e il motivo per cui il protagonista conta di resistervi («sprezzo il dolor») e che lo fa infuriare quando viene a sapere del tradimento di Tosca: infatti alla giustizia dell’antico regime premeva ottenere una confessione, in assenza della quale era difficile applicare la pena di morte; Cavaradossi crede di poter evitare l’una e l’altra.
     Tale constatazione, però, acquisterebbe maggiore importanza se l’Autrice non avesse dimostrato che l’elemento storico ‘1800’, oltre a riguardare Sardou molto più di Puccini, viene notevolmente snaturato sia nella tragedia che nel libretto. Infatti la procedura di Scarpia e dei suoi sbirri e boia, da una parte ha molto meno a che fare con la giustizia dell’antico regime che con l’immaginario post-risorgimentale; dall’altra parte, tali personaggi e procedura sono più facilmente riconducibili a Napoli e alla sanguinosa repressione della repubblica partenopea del 1799 piuttosto che a Roma sotto la breve occupazione borbonica, spesso confusa, ma non sistematicamente violenta. Alla stregua della storiografia più recente, l’Autrice rileva la maggior violenza usata dalla precedente occupazione repubblicana francese, e la relativa mitezza, tra illuminata e inefficiente, del precedente governo papale settecentesco (ci si può tuttavia chiedere se lo Stato della Chiesa di quei tempi fosse veramente «the most socially stable and politically secure state in Europe» pur essendo «hopelessly outdated» – pp. 29, 31).
     Perché, allora, non aver ambientato sia la tragedia sia l’opera a Napoli piuttosto che a Roma? La convincente risposta dell’Autrice è che così facendo si sarebbe perduta l’occasione vuoi di attaccare la Chiesa come ente repressivo (impresa particolarmente grata a Sardou, il quale si compiaceva inoltre di far risaltare l’origine francese di Cavaradossi), vuoi di sfruttare la risonanza di Roma, cuore della religiosità cattolica (come fece Puccini dando maggior rilievo al Te Deum, alle campane dell’Urbe, e alla ingenua fede personale di Tosca espressa nel «Vissi d’arte» e nell’ultimo grido sulle mura di Sant’Angelo). L’analisi dettagliata dell’opera che fa l’Autrice, con sfoggio di esempi musicali, non si sposa sempre felicemente con la sua analisi storica, ma mette in evidenza la maestria di Puccini nel creare un senso di esaltate passioni e scontri politico-religiosi pur eliminando gran parte dell’apparato informativo fornitogli da Sardou (per sapere che Cavaradossi è ‘volterriano’ occorre cogliere al volo la rapida battuta del sagrestano) e nello scartare, a favore della ardente passione erotica, ogni troppo specifica suggestione politica, come l’‘inno latino’ patrocinato da Giulio Ricordi. Si può quindi concordare con la Nicassio che l’opera parla ancora direttamente a un pubblico che di tirannide e di eroismo sa qualcosa, anche se sa poco o niente delle repubbliche italiane del 1796-99. 
     Il libro contiene qualche inesattezza nei nomi e titoli, di scarso rilievo dove l’Autrice tratta dei luoghi e tempi al centro del suo lavoro, ma più importanti quando se ne allontana (non si può, ad esempio, descrivere le orfane musiciste degli Ospedali di Venezia come pure «professionals» – p. 96 – dato che la Repubblica faceva di tutto per impedir loro ogni carriera di mestiere, e fino al tardo Settecento vi riusciva). Di scrittura vivace, si legge volentieri.

John Rosselli
(Firenze)