Giacomo Puccini

CONRAD WILSON, Giacomo Puccini, London, Phaidon, 1997 (20th-Century Composers), 239 pp.

Il mio primo incontro con la storia della musica fu la biografia pucciniana di Mosco Carner nella traduzione italiana di Luisa Pavolini. Avevo sedici anni, e ne scrissi una ‘relazione’ per l’insegnante d’italiano del liceo, che si sorprese della mia scelta, ma commentò che il mio era un interesse da incoraggiare. Adesso di anni ne ho esattamente il doppio, faccio il musicologo, e mi occupo di opera italiana, ma quella relazione liceale resta l’unica cosa che abbia mai scritto su Puccini. Il fatto che il mio sguardo sulla critica e la storiografia pucciniane sia uno sguardo da lontano (non troppo lontano, mi auguro) mi ha forse permesso di emergere dalla lettura della recente biografia di Conrad Wilson con l’impressione che poco sia cambiato dai tempi di Carner. Molto è cambiato, com’è ovvio, altrimenti non esisterebbero né il Centro Studi GIACOMO PUCCINI né «Studi pucciniani», e forse una collana sui compositori del Novecento non avrebbe pubblicato tra i suoi primi titoli una biografia di Puccini. Resta tuttavia il fatto che l’evoluzione della riflessione su Puccini non sembra aver ancora portato ad una svolta critica dal peso necessario ad incidere su un volume inteso principalmente per un pubblico di musicofili colti – almeno stando al risvolto di copertina, dove si legge che la collana «20th-Century Composers» è rivolta al «general reader and musical enthusiast» e a «music-lovers of every kind».
     Una valutazione equanime del libro di Wilson dovrà dunque innanzitutto tenere conto del tipo di lettore cui esso si rivolge, e riconoscere che come introduzione a Puccini per un pubblico di non specialisti esso funziona bene. Uno dei suoi pregi più cospicui è il tono sbottonato della prosa, che contribuisce ad una lettura particolarmente scorrevole. Le opere tradizionalmente più bistrattate dai critici, prime fra tutte Edgar, La rondine e Suor Angelica, ricevono un trattamento più che equilibrato, fatto che dimostra una lodevole indipendenza di giudizio da parte dell’autore. Tale indipendenza viene confermata dall’affermazione che Butterfly è la migliore tra le opere di Puccini (p. 147) – affermazione che mi ha fatto sobbalzare alla prima lettura, ma su cui converrebbe forse riflettere. La presenza di numerosissime illustrazioni, sia d’epoca che di recenti produzioni dei titoli più famosi, testimonia che l’autore sa bene che l’opera non è fatta solo di parole e musica, ma di parole, musica e immagini, e che queste ultime contribuiscono in modo fondamentale alla percezione dell’opera stessa da parte del pubblico. Wilson è di professione critico musicale, e non teme di includere nel testo riferimenti a recenti produzioni che egli ritiene particolarmente significative o illuminanti.  Tali riferimenti sarebbero inutili, e forse anche irritanti, per chi non abbia assistito agli spettacoli in questione, se non fossero accompagnati da fotografie di scena scelte e riprodotte con cura, che costituiscono senza dubbio uno dei maggiori pregi del volume. Due in particolare mi hanno colpito, entrambe da produzioni della Scottish Opera di Glasgow (Wilson scrive per il «Glasgow Herald» e ha pubblicato una storia della Scottish Opera e una biografia di Sir Alexander Gibson, il suo fondatore, alla cui memoria è dedicato il presente volume): una Tosca del 1980 per la regia di Anthony Besch ambientata  nella Roma di Mussolini, che presenzia al Te Deum in compagnia di Vittorio Emanuele III (il tutto prima della Tosca di Jonathan Miller per il Maggio fiorentino, si badi bene); e una Turandot del 1984 a firma di Tony Palmer, che reinterpreta l’opera alla luce della tragedia di Doria Manfredi, la cameriera di casa Puccini che si suicidò nel 1909 in seguito, pare, ai ripetuti insulti privati e pubblici da parte di Elvira Puccini, che la accusava di essere l’amante del marito: nella mise en scène di Palmer Turandot diventa Elvira, Liù è Doria, e Calaf, ovvio, il nostro Giacomo.
     Immagino poi che le numerose ripetizioni che caratterizzano lo stile di Wilson siano volute e costituiscano un modo per assicurarsi che il lettore casuale e magari disattento porti con sé alcuni concetti fondamentali una volta terminato il volume. Quali sono questi concetti? È qui che si misura quanto poco sia cambiato da Carner. Puccini resta ancora l’inarrivabile melodista dall’infallibile senso drammatico, il grande uomo di teatro che conosce la ricetta per afferrare l’attenzione del pubblico, guadagnarne la simpatia emotiva e farlo piangere. Vero, verissimo. Ma c’è di più, molto di più, come vanno via via argomentando gli studiosi più attenti. E questo di più aiuterebbe forse a liberarsi del tono da avvocato difensore che Wilson ha in comune con Carner. C’è il rapporto ambiguo e complesso con la tradizione dell’opera italiana ottocentesca, Verdi in testa, che Puccini non rifiuta in blocco né abbraccia entusiasta, ma che manipola, altera, tira e molla, insomma usa. Si pensi al concertato del terzo atto della Manon Lescaut, che non esisterebbe se non ci fossero stati «Plebe! Patrizi! Popolo!» e «A terra!… sì… nel livido fango », ma che, invece di iniziare con la parola scenica di Simon Boccanegra o di Desdemona, attacca come di nascosto con il «Rosetta!» del Sergente, personaggio del tutto secondario, così che non ci si accorge che il concertato è iniziato se non quando ci si è nel bel mezzo. Oppure si consideri il fatto che, come ci hanno mostrato William Ashbrook e Harold Powers, il terzetto delle maschere all’inizio del secondo atto di Turandot è articolato secondo la «solita forma» in uso nel melodramma ottocentesco.
     C’è poi la questione aperta della posizione di Puccini nei confronti della modernità, e in particolare del modernismo nelle arti e in musica. L’immagine del compositore attento agli sviluppi della musica europea ma cauto e lento nell’adottarne alcuni aspetti del linguaggio compositivo, pur incontrovertibile, non soddisfa più. Il dibattito corrente sulla definizione del modernismo in musica e sulla posizione di privilegio assoluto che l’avanguardia ha goduto nella storiografia del Novecento musicale lascia intravvedere possibilità fino a pochi anni fa insperate per gli studi pucciniani. Il confronto con Richard Strauss mi pare istruttivo. Dopo decenni di accuse di passatismo o, peggio, indifferenza, Strauss sta vivendo una fase di euforia critica impressionante, segnata dalla pubblicazione di biografie e studi musicologici che ne vanno rivalutando la posizione all’interno del Novecento musicale, giungendo perfino a proclamarlo «the composer of the century» (l’influente critico musicale americano Alex Ross sul «New Yorker» del 20 dicembre 1999). Ma se c’è un compositore novecentesco che merita questo titolo è certo Puccini, per lo meno se stiamo a guardare le statistiche dei titoli più rappresentati dai teatri d’opera di tutto il mondo, dove almeno Tosca e Butterfly, per restare con le opere nate nel Novecento, vengono prima di Salome, Elektra e Der Rosenkavalier. E si potrebbe provare a riflettere su Puccini adattando molti dei concetti della critica straussiana recente, primo tra tutti quello della commistione e della contrapposizione degli stili e dei registri linguistici come interpretazione artistica della disunità che segna la percezione di sé e dell’altro da parte dell’uomo moderno (il musicologo statunitense Bryan Gilliam nella sua recentissima biografia di Strauss per la Cambridge University Press). La bohème e Tosca come Der Rosenkavalier, dunque, Gianni Schicchi come Ariadne auf Naxos, Turandot come Ariadne o Die Frau ohne Schatten. Per una volta Strauss e Puccini non sarebbero i perdenti della storia della musica, ma vincenti forse più di Schönberg e Stravinskij.
     Sarebbe troppo chiedere a Wilson di tentare una rivalutazione di Puccini in questo senso, e non lo faccio. Ma almeno alcuni riferimenti ai rapporti tra le opere di Puccini e la cultura del tempo non avrebbero che potuto arricchire il discorso; un paragrafo su Butterfly, il colonialismo e l’esotismo, per esempio, non avrebbe dovuto mancare, dopo che gli studi di Arthur Groos e altri ci hanno tanto insegnato in proposito. Ancora meno comprensibile è la presenza di un certo numero di errori e inesattezze che l’intervento di un buon copyeditor avrebbe potuto evitare. Wilson confonde il Preludio sinfonico in La maggiore del 1882 con quello in Mi minore del 1876, a lungo considerato perduto, riapparso nel 1999 e recentemente eseguito per la prima volta da Riccardo Muti e l’Orchestra Filarmonica della Scala (p. 27). L’intermezzo della Manon Lescaut precede il terzo atto, non il quarto (p. 81). E la Cesira prima interprete di Manon e Mimì si chiamava Ferrani, non Ferrari (pp. 80 e 107).
     Il lettore italiano (ma forse non solo italiano) potrebbe infine rimanere a ragione perplesso dai non pochi momenti in cui l’autore si lascia andare a commenti sull’Italia e gli italiani che parrebbero più adatti al dépliant di un’agenzia di viaggi (britannica, s’intende) che alla biografia di un musicista. Wilson canta le lodi dei «crostini Puccini» del Ristorante «Puccini» di Lucca e delle sarde del «Butterfly » di Torre del Lago (pp. 13-4), e ci tiene a informarci che il Marchese Piero Antinori che raccomandò a Puccini The Girl of the Golden West di Belasco è lo stesso Antinori dei vini, e che l’attuale Marchese Piero ha avuto un ruolo importante nel rivoluzionare la produzione vinicola italiana (pp. 156-7). Puccini aveva organizzato un incontro segreto con la sua amante Josephine von Stängel a Lugano, e quindi il suo viaggio da Milano avrebbe seguito il tragitto «favoured more recently by corrupt Milanese tax avoiders with secret Swiss bank accounts» (p. 180) se il visto per la Svizzera non gli fosse stato rifiutato. Si raggiunge il comico (involontario, credo) quando Wilson descrive il giovane Puccini come un bell’uomo che, benché povero, ci teneva a fare bella figura, e che quindi, tra l’altro, indossava «smart Italian shoes» (p. 53). In Gran Bretagna e negli Stati Uniti «scarpe italiane» è sinonimo di scarpe eleganti, magari di vero cuoio, magari fatte a mano. Ma, a parte il fatto che in Italia le scarpe italiane non hanno la stessa reputazione che all’estero, mi riesce difficile pensare che Puccini avesse potuto indossare scarpe straniere nella Milano della fine dell’Ottocento, dove semmai il massimo dello chic saranno state scarpe francesi (ma solo per le donne).
     Vivo all’estero da sette anni e mi devo confrontare quasi ogni giorno con il nodo inestricabile di pregiudizi che vuole gli italiani un popolo di buongustai e bevitori gaudenti, impulsivi, ben vestiti ed eleganti, simpatici evasori fiscali di cui è meglio non fidarsi, e Wilson mi perdonerà se mi ribello alla sua sottile forma di razzismo. Ma la questione davvero importante è se questi stereotipi aiutino a comprendere meglio Puccini, anche un Puccini a uso dei borghesi musicofili anglosassoni. Mi ricordo benissimo che l’unico appunto che muovevo a Carner nella mia relazione liceale era proprio a proposito di alcuni suoi pronunciamenti sul sangue caldo e il temperamento passionale degli italiani. Poco sembra essere cambiato, come dicevo.

Emanuele Senici
(Oxford)