Recensione

Madama Butterfly, l’orientalismo di fine secolo, l’approccio pucciniano, la ricezione. Atti del convegno interna­zionale di studi, Lucca-Torre del Lago 28-30 maggio 2004
a cura di Arthur Groos e Virgilio Bernardoni, Firenze, Olschki, 2008, pp. 412.

di
Claudia Antonella Pastorino

Di tutto il repertorio pucciniano, Mada­ma Butterfly resta ancora oggi l’opera più assillata da ragioni opposte di entusiasmo e di freddezza da parte del pubblico, perché è controversa nella sua popolarità, giocata su pochi personaggi, quasi priva di cambi di scena, dominata dalla voce della protagonista e, non da meno, caratterizzata dal simbolismo morale di un Giappone che inteneri­sce e degli Stati Uniti che indignano. Ce n’è abbastanza non per dividere il pubblico, che ama da sempre questo titolo solitamente percepito con la pietas latina verso la sposa d’Oriente preda della spregiudicatezza d’Occidente, ma sicuramente per indurlo a propendere, con più entusiasmo, per le tinte fosco-parigine di una Bohème che mette tutti d’accordo. Tuttavia l’occasione del centenario dalla prima milanese e bresciana del 1904 – l’una volgarmente disastrosa, l’altra trionfale nella giustizia dell’attesa – ha fatto rifiorire un certo interesse storico intorno a un’opera nata tutto sommato in un periodo investito da curiosità per l’orientalismo, da mode esotiche, da venti di colonialismo.

Osservare queste sfaccettature dai molti contorni è quanto si è proposto il convegno internazionale di studi svoltosi tra Lucca e Torre del Lago dal 28 al 30 maggio 2004 e di cui sono stati solo di recente pubblicati gli atti, attraverso diciotto interventi dedicati a taluni aspetti dell’opera pucciniana in rapporto all’ambiente e all’ambien­talismo dell’epoca, non disgiunti dai caratteri storico-musicali che l’hanno segnata. Pur senza aggiungere grandi novità a quanto già noto, i contributi di Adriana Boscaro, Jann Pasler, Maria Ida Biggi, Theo Hirsbrunner, Steven Huebner, Adriana Guarnieri Corazzol, Arthur Groos, Francesco Rocco Rossi, Giorgio Pagannone, James Hepokoski, Roger Parker, David Rosen, Linda B. Fairtile, Dieter Schickling, Ino Turturo, Alexandra Wilson, Michela Niccolai, Laura Basini hanno rimesso sotto osser­vazione «Un bel dì vedremo», il duetto d’amore del primo atto particolarmente esaminato, la religione nelle opere di Puccini e i criteri per una edizione critica di Butterfly, la cui storia in so­stanza può riassumersi nella genesi dal 1901 alla prima alla Scala il 17 febbraio 1904, l’elaborazione per la successiva rappresentazione più fortunata data a Brescia il 28 maggio dello stesso anno, le pubblicazioni Ricordi dalla morte di Puccini ad oggi, la prima statunitense in lingua italiana alla Metropolitan Opera House di New York l’11 febbraio 1907. Ed è quest’ultima a segnare, insieme alla fine dell’interessamento pratico-operativo del compositore alle fasi di rifacimento e allestimento, quella che rimarrà fino ai giorni nostri la versione definitiva oltre che il fondamento per una edizione critica (così come viene ricordato dai relatori il nucleo delle edizioni più importanti, quelle che hanno fatto scuola per le moderne ri­prese e comunque quasi tutte visionate e accolte dal vivente Puccini almeno fino al 1920).

L’edizione di Milano, quella del fiasco, risulta più giapponese e Butterfly più madre con tanto spazio dedicato al bambino, mentre la snellita edizione di Brescia si arricchisce della romanza «Addio fiorito asil» che conferisce a Pin­kerton una patina di rimorso sia pure con fuga repentina; ma avranno la loro rilevanza anche le edizioni estere come le versioni di Londra I, Londra II, Parigi I, Parigi II, le già citate versione italiana del 1907 e partitura italiana del 1920, la versione riveduta e corretta del 1955, sfoltita in tutto di più di seicento battute con l’aggiunta di meno di novanta. Dagli interventi selezionati per la Olschki, alcuni dei quali arricchiti da qualche esempio musicale, emerge l’individua­zione di un filone leitmotivico attuato e sviluppato da Puccini più che nelle ope­re precedenti, soprattutto nel primo atto e, in particolare, nel bel duetto d’amore, ma anche nel secondo atto tramite una «trama di relazioni leitmotiviche», atte­stazioni musicali di motivi dipendenti dal tema di Butterfly e di quelli non dipendenti ma melodicamente affini. Si continua con il confronto di partiture e spartiti di prima e di seconda mano, dei segni, delle annotazioni, delle os­servazioni, delle indicazioni, come del resto avviene in ogni partitura passata per molte mani, dall’autore al direttore d’orchestra, ai cantanti, ai revisori di ieri e di oggi.

Un’acuta osservazione che a pri­mo acchito potrebbe nascondere una banalità e invece non lo è, consiste nell’assegnare il motivo dell’entusiasmo di Puccini non già alla storia dell’infe­lice geisha sedotta e tradita dal potere imperialistico degli Stati Uniti, bensì a un dettaglio senz’altro meno poetico ma di effetto immediato sulla sua fan­tasia, e cioè la riuscita dell’allestimento americano del dramma di David Bela­sco e John Luther Long cui assistette al teatro Duke of York a Londra, il 21 giugno 1900. Fu questo soprattutto a impressionarlo. Quel gioco di luci, le scenografie, le masse, i colori s’impres­sero in lui, nella spiccata sensibilità a certi particolari scenici d’innovazione, poiché era un moderno, uno che seguiva le mode, come per le automobili e l’abbi­gliamento, secondo le tendenze d’inizio secolo e la eccezionale maestrìa degli americani nell’arte della nascente cine­matografia. Il progresso tecnico anche nel campo della scenografia costituiva infatti uno dei fiori all’occhiello delle conquiste dei primi del Novecento, in un crescente sviluppo rafforzato dall’uscita di testi innovativi in materia, nonché dal pionierismo di Parigi e Londra, sempre all’avanguardia, che si fecero subito notare per le scene, i costumi, i giochi di luci e di colori, il dinamismo dei loro spettacoli. E Puccini qualcosa doveva saperne, avendo collaborato con Albert Carré per la messa in scena de La Bohème all’Opéra-Comique nel 1898, e così pure Giulio Ricordi il quale aveva commissionato a Lucien Jusseaume, scenografo di prim’ordine, il disegno dei bozzetti per la prima italiana della But­terfly alla Scala per poi non farne nulla: la scelta andò ai curatori ufficiali degli allestimenti scaligeri, gli italiani Vittorio Rota e Carlo Songa, i quali dall’alto della loro esperienza e abilità seppero sempre cavarsela bene nel varo delle produzioni milanesi non solo pucciniane.

Ma l’Oriente non fu soltanto il so­gno ventilato dal nuovo secolo, visto che illustri predecessori erano stati Alessan­dro Magno, con la sua grande ambizione di un Oriente ellenizzato, quindi Cesare e Antonio, prima che Ottaviano Augusto spazzasse via, a favore dell’Occidente romano, ogni velleità di assimilazione e integrazione con un Oriente ellenico e romano al tempo stesso – processo già in atto con i Tolomei e con Cleopatra in particolare – ponendo in tal modo le basi future per le profondità di diva­rio tra le due civiltà a tutt’oggi ancora irrisolte. Restava però il miraggio del fasto orientale rinverdito in seguito alle campagne napoleoniche in Egitto – con tutte le importanti scoperte e studi connessi e conseguenti – e, col nuovo secolo, la smania di nipponismo limitata al folklore, a un turismo da cartolina nei settori della moda, della pittura, della danza, della letteratura, da cui veniva fuori una patina di realtà trop­po lontana dal vero. Né è un caso che l’opera di Puccini avesse la sua fonte in una comédie-lyrique in quattro atti e sei quadri, con Prologo ed Epilogo, di André Messager, Madame Chrysanthème, su libretto di Georges Hartmann e André Alexandre dall’omonimo romanzo di Pierre Loti del 1887.

Interessante, per la comprensione della scelta geografica di Nagasaki, la trattazione dei suoi primi rapporti con l’Occidente tramite mercanti portoghesi e missionari gesuiti a partire dal XVI secolo, complice la felice posizione sulla costa nord-occidentale del Kyūshū (che è l’isola più meridionale dell’ar­cipelago). La città, nata come borgo di pescatori adagiata su una baia ampia e ricca d’insenature, divenne poi centro commerciale e base storica dei gesuiti, capitanati da padre Alessandro Valigna­no, maestro di diplomazia nei rapporti di reciproca convivenza e rispetto delle divinità locali. Verso la fine del 1500 ai gesuiti subentrarono i francescani e i domenicani, con i quali sorsero nuovi problemi finché, in seguito a compli­cazioni politico-religiose, si arrivò nel 1640 alla chiusura definitiva del paese al mondo occidentale, benché la vasta mole dei documenti gesuiti e degli scambi epistolari sia con Roma sia con altri paesi cattolici contribuissero egualmente a far conoscere il Giappone. Nacquero infatti nuovi testi pubblicati e tradotti in varie lingue. Dopo i cattolici, giunsero i protestanti del nord Europa, vale a dire i commercianti della Com­pagnia delle Indie Olandesi in cui ope­ravano anche tedeschi e svedesi, tutti stanziatisi nella baia di Nagasaki fino al 1858, vigilati strettamente dalle autorità locali che non avevano dimenticato le noie avute con i precedenti visitatori. In compenso la graduale scoperta del mondo giapponese ebbe un notevole impulso anche attraverso la pubbli­cazione di stampe, mentre si apriva in quei territori una nuova miniera di conoscenze fino ad allora ignote in campo medico, scientifico, tecnologico suscitanti l’interesse delle popolazioni nonostante i divieti dei suoi organismi autoritari di controllo (si pensi che un’apertura alle navi straniere fu con­cessa – ai russi – solo nella seconda metà del 1800).

Con la diffusione della canzonet­ta tra fine Ottocento e prima guerra mondiale, la Butterfly avrà una note­vole influenza su films e canzoni, tra cui, per fedeltà di citazioni testuali, si distinsero Tornerai di Rastelli-Olivieri (1936) e Piccola Butterfly di Bertini-Redi (1948), secondo un filone che continuava a riscuotere successo e, ancora adesso, a far presa sulle corde emotive toccate dalla tragedia dell’infe­lice sposa-giocattolo. Puccini era certo di aver scritto un capolavoro e se ne disse sempre convinto, senza forse te­ner conto dei limiti rappresentati dalla situazione monotematica un po’ troppo statica, dall’assenza pressoché totale del tenore se non all’atto primo e – quasi una comparsa – all’ultimo, insomma di un’opera basata su poca vitalità d’azione e quasi nessun ricambio di personaggi in scena. Tuttavia Madama Butterfly si colloca cronologicamente al centro della migliore produzione puccininana, che proseguirà con La Fanciulla del West del ’10, La Rondine del ’17, Il Trittico del ’18, la Turandot del ’24, per cui si può affermare che, eccezion fatta per la Turandot (opera-chiave della fine ma anche di un’epoca), essa va a chiudere la fase del periodo musicalmente più bello.