Valutazione

Puccini giunse a dominare l'orchestra come mai aveva fatto un italiano prima di lui, a creare nuove forme manipolando le strutture ereditate dalla grande tradizione italiana, saturandole di arditi procedimenti armonici che poco o nulla avevano a che vedere con quello che si faceva nell'Italia di allora, mentre si trovavano in sintonia con l'operato dei colleghi francesi, austriaci e tedeschi. Purtroppo morì senza lasciare eredi. La fine di Liù si limita a coincidere, al di là dell'agiografia, con la fine di un certo modo di fare opera in Italia, a prescindere dai suoi contenuti effettivi: quell'opera stava morendo, assediata da altri generi di spettacolo che le contendevano i favori del pubblico (di conseguenza insidiata dai debiti che avrebbero reso necessario in quegli anni ripensare a tutto il sistema produttivo). La Scala di Milano fin dal 1921 aveva avviato la trasformazione in Ente autonomo; di lì a poco tutti i principali teatri d'Italia avrebbero seguito il suo esempio. I vantaggi di questo nuovo sistema Puccini li aveva più volte ammirati in molti teatri europei, particolarmente in quelli di lingua tedesca; esso gli avrebbe garantito un futuro meno condizionato dalla necessità di riempire una sala a tutti i costi. Maggior rammarico è che egli non abbia potuto vivere questa nuova fase; che non sia possibile sapere dove l'avrebbe portato la sua volontà di rinnovarsi, quali tecniche avrebbe adottato, come avrebbe ridotto col suo esempio la distanza fra sperimentazione e contatto col pubblico. Ed è un rimpianto ulteriormente accresciuto dall'analisi del ‘frammento-Turandot', poiché Puccini aveva raggiunto un risultato prezioso, messo a disposizione dei musicisti italiani del riscatto (da Maderna a Berio, a Bussotti e Nono): avvicinare l'opera italiana - contro l'alienazione contemporanea, la crisi post-bellica e le nascenti retoriche patriottarde - alla grande musica contemporanea europea.