Il 1800 fra storia vera e storia reinventata da Victorien Sardou

Una primadonna per Floria Tosca: Sarah Bernhardt (1-4)

La peculiarità della trama di Tosca di Puccini è quella di presentare una concatenazione ficcante di eventi che ruotano vertiginosamente intorno alla protagonista femminile che è divenuta, in quanto cantante, la prima donna per antonomasia del teatro lirico. Giacosa e Illica mutuarono questa situazione direttamente dalla pièce di Victorien Sardou e, per sineddoche, da Sarah Bernhardt che gli aveva ispirato la parte. Il sodalizio tra i due artisti era iniziato nel 1882, quando l’attrice interpretò Fédora, il primo di una serie di drammi pensati espressamente per lei. Ecco come lei stessa descrive, nelle sue memorie (Ma double vie, 1907) l’incontro che dette inizio, nel 1882, al loro lungo sodalizio artistico. Esso ebbe luogo al ritorno della diva da una tournée americana in cui aveva visitato 50 città e sostenuto 156 recite nel corso di sette mesi:

Passai la notte nella mia proprietà di Saint-Adresse. E il giorno dopo partivo per Parigi. Un’ovazione delle più lusinghiere m’aspettava all’arrivo.
Poi, tre giorni dopo, sistemata nella mia casa dell’avenue de Villiers, ricevevo Victorien Sardou per ascoltare la lettura del suo magnifico testo, Fedora.
Che grande artista! Che splendido attore! Che autore meraviglioso!
Mi lesse quel testo tutto d’un fiato, recitando tutte le parti, dandomi in un secondo la visione di quella che avrei fatto.
«Ah!» gridai dopo la lettura. «Grazie maestro, grazie per questa bella parte! E grazie per la bella lezione che mi avete dato»

I tanti punti esclamativi di cui è costellata la rievocazione la dicono lunga sul suo carattere: Sarah, ebrea parigina d’origine olandese (nata il 23 ottobre 1844), sfoggiava una personalità fortissima sulla scena e nella vita, dove era solita sedurre gli uomini e metterli da parte quando avevano fatto il loro tempo – il che le accadeva, come a Carmen, nel giro di poco tempo: il suo matrimonio, celebrato il 4 aprile del 1882 con l’attore greco Damala, era durato poco meno di un anno, e ben presto altri amanti, più o meno ufficiali, avevano preso il suo posto. La sua carica erotica era tale da indurre il critico e scrittore Jules Lemaître, nel recensire la sua Phèdre (1874), ad affermare che la Bernhardt nel personaggio aveva messo non soltanto la sua anima, il suo spirito e il suo fascino fisico, ma anche il suo sesso. Una recitazione così ardita in qualsiasi altra donna riuscirebbe urtante, ma poiché la natura l’ha fatta così povera di carne e le ha dato l’aspetto di una principessa da leggenda, la sua levità e la sua grazia piena di spiritualità trasformano anche le movenze più audaci in qualcosa di squisito.

Era l’inizio di un mito, che affondava le sue radici nei fondamenti stessi del teatro francese. Partita dall’interpretazione dei grandi classici, e in particolare di Racine (Iphigénie) e Molière (Les femmes savantes), la Bernhardt riscosse un successo sempre crescente nel repertorio contemporaneo: se fu acclamata la sua Marguerite Gautier nella Dame aux camélias di Alexandre Dumas fils, altrettanto brillante ella si rivelò nell’indossare panni maschili efebici (da Pélleas nella pièce di Maeterlink al paggio seduttore Cherubino del Mariage de Figaro di Beaumarchais), ad incarnare quel mito dell’androgino in gran voga negli ambienti intellettuali di allora (si pensi agli scritti di Péladan o alle esibizioni della danzatrice e mimo Ida Rubinstein). La natura stessa spingeva dunque l’attrice a cercare soggetti che ne mettessero sempre più in luce il temperamento accentratore, adatto alle più alte temperature drammatiche. Ma furono cause di necessità a dirigerla verso Sardou: dopo alcuni anni di tensione con la prestigiosa Comédie française, che l’annoverava nei suoi ranghi, la Bernhardt dette le dimissioni (1880) e iniziò una carriera da libera professionista che l’avrebbe portata sino a comprare, nel 1893, il Théâtre de la Renaissance per mettervi in scena il proprio repertorio, da costituire ad hoc.

Sardou (1.4) creò per Sarah una vera e propria galleria di personaggi femminili, studiati per metterne in luce una sensibilità teatrale incline al mélo, ponendola di volta in volta al centro di situazioni moderniste, come accade alla principessa-spia russa Fedora, oppure di ambienti decadenti, quali la Bisanzio di Théodora tutta ori e sensualità mortale (1884, con le musiche di scena di Jules Massenet), fino al-l’Egitto di Cléophatre (1890). Erano pièces d’immediata presa, adattissime quindi alle esigenze degli operisti della fin de siècle, che attinsero ripetutamente a quel repertorio, da Giordano sino a Puccini, per l’appunto.

La prima de La Tosca, terza tappa del loro percorso artistico, ebbe luogo il 24 novembre 1887 al Théâtre de la Porte de Saint-Martin (1.3). Al fianco di Sarah fu Pierre Berton (2.2) a indossare i panni di Scarpia. Scorrendo le immagini dello spettacolo, fissate dalle fotografie della prima (2.2-4), vediamo emergere in lei la grinta dell’animale da palcoscenico, mentre fissa l’antagonista con disprezzo (2.2) per poi ricomporsi dopo l’omicidio (2.4), o mentre sosta nervosa attendendo l’amante, con la mano che stringe appena il pomo del bastone da passeggio e lo sguardo perso nel vuoto, ma immerso nella temperie dei sentimenti (4: il gesto è particolarmente eloquente). Che l’aspetto visivo di varie situazioni della pièce abbia creato dei veri e propri passaggi obbligati nella recitazione lo si può constatare facilmente dall’incisione che mostra la scena clou del IV atto (2.5), inquadrando la protagonista mentre, colta da scrupoli di pietà cristiana, pone due candelabri al fianco della vittima: la posizione venne importata pari pari nel finale II dell’opera, e alla sua straordinaria efficacia comunicativa vennero affidate le sorti pubblicitarie anche della Tosca di Puccini. Al tempo stesso risalta nei figurini (1.1-2, 1.5-6) la stilizzata immagine liberty del personaggio, che avrebbe ispirato i manifesti pubblicitari e le copertine degli spartiti firmati da Metlicovitz per conto delle Arti grafiche Ricordi. Si noti, in particolare, la corrispondenza tra il figurino del IV atto (2.2 e 2.4) e le fotografie di scena (2.3): essa attesta una valenza normativa del progetto che rimarrà tale anche nella vita operistica del personaggio.

Lo spettacolo parigino in tournée (5-6)

Il relativo manifesto (5.1) ci mostra il repertorio che la Bernhardt portò con sé nel corso della seconda tournée italiana (1889), che toccò varie città, tra cui Milano e Torino (tra i lavori figura anche La Dame de Chalant di Giuseppe Giacosa, allora ben lungi dall’iniziare la propria carriera di librettista). Fu in quell’occasione, appunto, che Puccini decise di mettere in musica il dramma di Sardou, stregato dall’abilità con cui Sarah, pur recitando in francese (lingua che il musicista allora non conosceva), sapeva rendere l’intima essenza del dramma. Le critiche comparse sui giornali italiani (5.2-3) mettono in rilievo come, a dispetto di un dramma non particolarmente eloquente, sia stata la Bernhardt a dare un senso alla serata:

Tutte le rappresentazioni date dalla Bernhardt furono di lavori noti. L’attenzione poteva essere quindi tutta concentrata in lei. Uno solo era nuovo: il dramma che Sardou scrisse per lei: La Tosca. E qui l’attenzione dedicata, malamente, al barocco, infelice lavoro avrebbe potuto pregiudicare quella per l’artista. Ma invece la sua immensa personalità si è imposta; la sua interpretazione ha sbalordito: da quando è uscita nel pittoresco costume, col quale è ritratta nel disegno che diamo, a quando si è gettata nel Tevere, il pubblico fu incantato da lei, da lei fu ammaliato.

Probabilmente c’è del vero in stroncature del lavoro di Sardou come questa – anche se George Bernard Shaw avrebbe stigmatizzato, in uno dei suoi taglienti giudizi, l’eccessiva febbre che coglieva critica e pubblico ad ogni apparizione dell’attrice ("Sarah non cambia mai. Non penetra nel carattere che rappresenta, ma si pone semplicemente al suo posto"). Per apprezzare sino in fondo il valore del libretto di Illica e Giacosa è utile fare la conoscenza con la pièce, osservando i sei bozzetti di Carpezat, Robecchi, Amable, Lemeunier, Rubé, Chaperon e Jambon (6). Essi corrispondono ad altrettanti quadri, e sono distribuiti nell’arco dei canonici cinque atti, l’ultimo dei quali viene sdoppiato. Sei quadri, dunque il doppio di quelli dell’opera di Puccini: già questo dato mette in rilievo l’operazione di sintesi cui è improntato l’adattamento per le scene liriche, tale da creare un rapporto simbolico assai più forte tra lo sfondo di Roma, in quanto capitale del cattolicesimo, e la sorte dei personaggi. Se l’ambiente del I atto, la chiesa di Sant’Andrea della Valle (6.1), corrisponde all’opera (22.1), a cominciare dal II scena e azione divergono in modo assai significativo. La sala di Palazzo Farnese in Sardou (6.2) non ospita interrogatori, torture e discussioni accese come in Puccini (22.2), ma una festa di gala vissuta sin nei dettagli, dove compaiono diversi personaggi storici, dalla Regina di Napoli Maria Carolina sino al compositore Paisiello. Si assiste cioè a quello che, con straordinario effetto, Puccini e i suoi librettisti piazzano fuori scena (la cantata celebrativa per la presunta vittoria a Marengo delle truppe austriache), mentre Scarpia interroga Cavaradossi e ne ordina la tortura. L’appuntamento con la crudeltà, nella pièce, è rimandato al III atto che si svolge nella Villa di Cavaradossi (6.3), ed è ancora una volta un luogo solamente evocato da Puccini, in poche battute di racconto al I atto e nel resoconto di Spoletta in quello seguente, fino alla drammatica confessione di Floria che scatena l’ira di Cavaradossi. L’ultima parte del II atto in Puccini, che culmina nell’omicidio, si svolge invece in una camera a Castel Sant’Angelo (6.4), mentre poi il condannato, prima di salire sulla piattaforma, passa per una tetra camera e dà sfogo ai suoi ricordi, ma senza che il pathos venga accresciuto dalla visione di Roma all’alba (6.5).
Oltremodo interessante si rivela, soprattutto, il confronto fra la scena conclusiva della pièce (6.6), che corrisponde al III atto di Puccini (22.3). Rubé, Chaperon e Jambon, dietro precise indicazione dello stesso Sardou, avevano spostato il corso del Tevere, e posto la cupola di San Pietro sullo sfondo: l’intento era quello di rendere immediatamente percepibile che Tosca, gettandosi dai bastioni, sarebbe sprofondata nel Tevere. Adolf Hohenstein, che disegnò i bozzetti dell’opera, ristabilì la contiguità tra i due luoghi che segnano, senza soluzione di continuità, il rapporto tra il potere temporale e quello spirituale del papato, in linea con un’interpretazione scenica, oltre che drammatico-musicale, del soggetto che mirava a rendere il più possibile evidente il legame tra la città eterna, in quanto luogo dove la devozione sconfina nella bigotteria, e il barone Scarpia, sadico burattinaio che grava sulle sorti dei due protagonisti sino a predeterminarne il tragico esito.

Visioni di Roma 1800, tra Napoleone e le repubbliche effimere di fine secolo (7-10)

Inizia qui il confronto tra la realtà, in alcune tra le sue molteplici sfaccettature, e il vero reinventato da Sardou. Si riguardi la scena finale del dramma e la si compari con lo stesso luogo ritratto da Piranesi nel Settecento (7.2), da Camille Corot nel 1828 (7.1), e come figura in un incisione del 1836 (7.3) per constatare come tutti, e non solo per mero rispetto della realtà, abbiano voluto fissare con chiarezza quel traît d’union tra il fosco Castello e la Basilica di San Pietro (7.5), in quanto simboli delle due facce del potere papalino cui si è poc’anzi accennato. Si noti inoltre come appare il paesaggio in Corot, dove i dintorni del sinistro edificio sono aperta campagna, e si rifletta sulla verosimiglianza dello scorcio d’apertura nel III atto dell’opera, con lo stornello in dialetto romanesco intonato da un pastorello, ora del tutto implausibile. La veduta di Palazzo Farnese (7.4) ci mostra poi, in tutto il suo splendore, il maestoso palazzo al cui interno si svolge il II atto dell’opera.
Nella Tosca di Sardou un reticolo fittissimo intreccia gli accadimenti storici alla finzione. L’azione viene ambientata a Roma il 17 giugno del 1800, tre giorni dopo la battaglia di Marengo in cui l’esercito condotto da Napoleone (10.1-2) trionfò, grazie a un colpo di mano del generale Desaix (10.5), sul generale austriaco Melas e restaurò la Repubblica Cisalpina (si consultino le due piante che fissano i due momenti salienti della storica battaglia, 9.1-2, e la stampa che ritrae un momento dello scontro, 10.3). La battaglia di Marengo non fu solo avvenimento centrale della campagna d’Italia, ma assunse subito una funzione particolare nell’uso strategico delle notizie, tanto da divenire, come avvenne a Lucca, uno spettacolo teatrale, che andò in scena il 10 ottobre 1800, appena un giorno dopo l’instaurazione a Lucca della terza Repubblica Democratica (10.4). Merita leggere la cronaca che ne fece un musicista reazionario, conservata all’Archivio di Stato di Lucca:

La Battaglia di Marengo data nella seconda discesa de’ Francesi in Italia di cui parlai al suo luogo fu la totale rovina non solamente nostra ma di tutta l’Italia ancora. Di questa rovina fatale adunque se n’è formato uno spettacolo teatrale, ove si pretende che tutti ne vadano a godere. Questo spettacolo fu rappresentato la sera de’ 10 ottobre con molto concorso ed applauso, ed a richiesta degli spettatori ch’erano però tutti Giacobini fu replicata la sera degli 11. Questa rappresentanza all’oggetto di attrarre molti spettatori fu annunziata al pubblico con un avviso Teatrale che troverai sotto il n° 208.

Lo sfondo storico e politico è il presupposto indispensabile della tragica vicenda di Tosca e Cavaradossi. Nel settembre del 1799, dopo aver stroncato la Repubblica napoletana, le truppe borboniche entrarono nella futura capitale d’Italia ponendo fine anche all’effimera esperienza della Repubblica romana, insediatasi in Campidoglio (8.1) il 15 febbraio 1798 e che aveva persino iniziato, con un tocco d’ottimismo, a stampare moneta (8.2). L’occupazione della città da parte dell’esercito di Ferdinando iv permise a Barnaba Chiaramonti, eletto papa il 14 marzo del 1800 col nome di Pio vii, di riappropriarsi del soglio di Pietro, mentre dilagavano cruente repressioni contro i patrioti. Fra essi occupava una posizione di primo piano il medico Liborio Angelucci, che il 20 marzo 1798 era stato proclamato Console della Repubblica romana: la sua figura fu probabilmente presa a modello per il personaggio di Cesare Angelotti, insieme ad altri rivoluzionari, come Angeletti (8.3), patriota napoletano, cui spettò invece una punizione pubblica esemplare: le mani legate e a cavallo tra due ali di folla che gli sputa addosso, mentre viene portato al patibolo.
Sardou eccelleva nell’utilizzare la storia come supporto per la trama d’invenzione, tale da creare un plausibile amalgama fra realtà storica e realtà fittizia. Nella sua Tosca le figure realmente esistite conferivano un marchio di autenticità ai protagonisti del dramma, che giungevano così all’appuntamento col destino provvisti di una precisa identità biografica. Alla festa di Maria Carolina d’Asburgo Lorena, regina di Napoli (12.1), ad esempio, compariva il "maestro della real camera" della Corte napoletana Giovanni Paisiello (11). Il compositore aveva effettivamente vissuto l’effimera esperienza della Repubblica partenopea e – dopo tormentate vicissitudini patite durante la restaurazione borbonica – s’era recato in Francia al servizio di Napoleone nel 1802. Sardou ne fece l’autore della cantata celebrativa della presunta vittoria austriaca a Marengo e il mèntore della carriera artistica di Floria Tosca.
Vi sono anche risvolti di questa vicenda che riguardano da vicino Lucca e la famiglia Puccini, e implicano intrichi interessanti tra diverse realtà (in sincronia e diacronia, per luoghi e ideologie) che meritano una breve digressione. Domenico, nonno di Giacomo, si era recato a Napoli nel 1797 per studiare con Giovanni Paisiello. Superati senza danno i momenti drammatici della controrivoluzione, Domenico decide di rientrare a Lucca, ma prima di partire, non manca di farsi rilasciare dal suo maestro il diploma di composizione, che ci è conservato in una copia tarda (11: da notare la tipica intestazione "Libertà Repubblica Napolitana Eguaglianza"). Domenico Puccini compare anche in un’incisione dell’inizio del XIX secolo (di cui vediamo qui un particolare, 12.2), raffigurante il monte Parnaso adornato da medaglioni dei più noti compositori del tempo. Nello stesso medaglione compaiono un conterraneo, Arrighi, in veste talare e il francese Gretry, uno dei protagonisti musicali del periodo rivoluzionario che, come Puccini, indossa un abito di foggia napoleonica. Ancora Domenico scrive una lunga lettera al padre Antonio (12.3), con una cronaca dettagliata dei giorni napoletani più caldi del 1799. Domenico inizia a scrivere il 29 gennaio - ma racconta i fatti dal 23 novembre 1798 - e termina il 4 febbraio, come si può vedere nell’ultima pagina. La lettera, che è un prezioso documento storico oltre che biografico, contiene un’informazione precisa su Paisiello: convocato dalla corte per imbarcarsi per Palermo, arrivò tardi al porto, quando la nave era già partita. Non fu dunque una decisione, quella di non seguire i reali, ma una pura casualità. Curiosa una delle frasi finali «Basta: l’ho scampata, e son vivo, che certo se seguitava anche un poco ero de primi ad esser vittima di quei birboni»: naturalmente i birboni sono i controrivoluzionari. La lettera non è autografa: la mano è del padre di Domenico, Antonio, che, dopo la morte precoce del figlio, raccolse musiche e documenti. Per mettere a confronto la inconfondibile grafia di Antonio con un altro documento suo, è stata scelta una perizia, in data 27 maggio 1804, firmata da Antonio unitamente ad un altro Maestro di Cappella lucchese, Pasquale Antonio Soffi, incaricati di verificare l’accordatura delle campane nuove e vecchie del campanile della Basilica di San Frediano (12.4). Il pensiero corre a Giacomo Puccini che, mentre componeva Tosca, con insistenza chiedeva ad amici romani l’esatta accordatura delle campane di Roma.
Questo primo itinerario si conclude mettendo rapidamente a fuoco un’altra realtà storica legata agli anni napoleonici. La prima Repubblica Democratica instaurata dai francesi a Lucca all’inizio del 1799 ebbe vita breve, come avvenne in tante altre città italiane: nel luglio i francesi furono sostituiti dagli austriaci, che dettero vita ad una prima Reggenza austriaca (18 luglio 1799 - 8 luglio 1800). L’avvicendarsi di governi diversi stimolò la produzione di fogli encomiastici o satirici, l’organizzazione di eventi anche musicali che celebravano i nuovi governanti. L’incisione Il Patriottismo in viaggio per casa del diavolo (13.1) fu diffusa subito dopo la resa di Genova. L’immagine riunisce simboli vari (l’aquila imperiale vittoriosa, la croce, le mitrie papale e vescovile, il pastorale calpestati) e più o meno lunghe stigmatizzazioni dei peggiori vizi del patriottismo, con una scritta in bella evidenza: «Calpesta il rio coi piè l’eterna Legge, che la terra, ed il Ciel conserva, e regge».
Gli austriaci a Lucca furono in grado di organizzare per tempo feste pubbliche per la resa di Genova, dal momento che l’assedio era durato a lungo, e la notizia non li aveva trovati impreparati. Fu possibile commissionare a Domenico Puccini la composizione di un Te Deum a doppio coro con strumenti obbligati e banda militare (13.2) che fu eseguito in Cattedrale l’8 giugno. In quegli anni i Te Deum cantati a coronamento di un evento politico sono veramente una legione in tutta Italia, ma questo di Domenico Puccini ha caratteristiche interessanti: non ci si limita a eseguire la stessa musica di sempre con gli stessi musicisti, ma si inventa qualcosa di nuovo, ossia la presenza della banda militare ‘obbligata’ in chiesa. L’idea «riscosse universale applauso per la maestria colla quale aveva saputo intersecarvi i militari strumenti e per la nuova idea colla quale era composto sapendo unire con maestria il serio ed il grave adattato alla Chiesa», secondo la recensione di un musicista reazionario il cui apprezzamento fu forse aumentato dal significato politico della celebrazione.
Per la stessa occasione, la resa di Genova, Domenico Puccini compose anche l’inno «Bella madre degl’inni guerrieri», su testo di Francesco Franceschi, per coro a 2 voci e una banda di fiati (13.3-4). L’organico si spiega pensando all’esecuzione: per strada, di notte, l’11 giugno. Non si può non rilevare che in questo caso gli austriaci avevano imparato la lezione dai francesi, dato che le feste per la resa di Genova ebbero una regìa complessiva da festa patriottica, con significativi momenti en plen air. Al nuovo cambio della guardia, l’8 luglio, Francesco Franceschi finì in carcere proprio per il testo di questa cantata. Domenico Puccini invece fu incaricato di comporre una cantata ‘rivoluzionaria’, che doveva essere eseguita il 31 agosto 1800 nel Teatro della Nazione, oggi Teatro del Giglio. Affiancate troviamo infine una satira sulla morte della Repubblica Cisalpina, confinante con il territorio lucchese, e caduta in circostanze analoghe a quelle lucchesi e un’ode che plaude con toni enfatici al «faustissimo ingresso delle vittoriose truppe imperiali in Lucca» (13.5-6).

 

Elenco delle immagini esposte

1.1 E. Mesplès, figurino per Tosca, I atto. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
1.2 E. Mesplès, figurino per Tosca, II atto. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
1.3 Prima pagina di una recensione apparsa dopo la prima "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
1.4 Victorien Sardou.
1.5 E. Mesplès, figurino per Tosca e Cavaradossi. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
1.6 E. Mesplès, figurino per Scarpia. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
1.7 I pittori delle scene per la prima rappresentazione parigina. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.

2.1 E. Mesplès, figurino per Tosca, IV atto. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
2.2 Foto di scena con Sarah Bernhardt. Biblioteca del Burcardo, Roma.
2.3 Foto di scena con Sarah Bernhardt e Pierre Berton. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
2.4 Foto di scena con Sarah Bernhardt e Pierre Berton. Biblioteca del Burcardo, Roma.
2.5 La quarta scena del IVatto de La Tosca in un’incisione di Charpentié e Gourget. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.

3 Foto di scena con Sarah Bernhardt Biblioteca del Burcardo, Roma.

4 "La Tosca" dramma in cinque atti e sei quadri di M. Victorien Sardou. Elenco dei personaggi. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.

5.1 Una locandina della tournée italiana di Sarah Bernhardt. Biblioteca del Burcardo, Roma.
5.2 "Il Mondo Artistico", CIRPeM, Parma.
5.3 "Lo Staffile", CIRPeM, Parma.

6. I bozzetti delle scenografie. "Les premières illustrées, 1887-1888". Museo Teatrale alla Scala.
6.1 Capezat, La chiesa di Sant’Andrea, scena del I atto.
6.2 Robecchi e Amable, Sala delle feste a Palazzo Farnese, scena del II atto.
6.3 Lemeunier, La villa Cavaradossi, scena del III atto.
6.4 Robecchi e Amable, Una camera a Castel Sant’Angelo, scena del IV atto.
6.5 Rubé-Chaperon e Jambon, Cappella dei condannati a Castel Sant’Angelo, prima scena del V atto.
6.6 Rubé-Chaperon e Jambon, Spalti di Castel Sant’Angelo (Panorama di Roma), seconda scena del V atto.

7.1 Camille Corot, Castel Sant’Angelo e San Pietro, circa 1828, San Francisco, Fine Art’s Museum.
7.2 Piranesi, Vedute di Roma, c. 1750.
7.3 Castel Sant’Angelo e San Pietro incisione tratta dall’Atlante di Attilio Zuccagni Orlandini, Firenze, 1836-1845. Daniele Squaglia, Stampe antiche, Lucca.
7.4 Palazzo Farnese, incisione. Atlante di Attilio Zuccagni Orlandini, Firenze, 1836-1845. Daniele Squaglia, Stampe antiche, Lucca.
7.5 San Pietro, incisione. Atlante di Attilio Zuccagni Orlandini, Firenze, 1836-1845. Daniele Squaglia, Stampe antiche, Lucca.

8.1 J. Duplessis-Bertaux, Proclamazione della Repubblica Romana nel settembre 1798, incisione. Museo Napoleonico, Roma.
8.2 Assegnato romano. Collezione Susan Vandiver Nicassio.
8.3 Nicola Antonio Angeletti, incisione. Vannucci, I martiri della libertà italiana0. Collezione Susan Vandiver Nicassio.

9 David Chandler, The campaigns of Napoleon, Weidenfeld & Nicolson, London 1967.

10.1 Napoleone, incisione in rame, datata 1820. Daniele Squaglia, Stampe antiche, Lucca.
10.2 Napoleone primo console a cavallo, litografia colorata a mano dalla Imprimerie di C. Motte dal quadro del Vernet. Daniele Squaglia, Stampe antiche, Lucca.
10.3 La battaglia di Marengo, illustrazione tratta da De Norvins, Storia di Napoleone, Milano, Sonzogno, 1904. Studio bibliografico Pera, Lucca.
10.4 Locandina dello spettacolo La battaglia di Marengo. Archivio di Stato, Lucca, Archivio Sardini 189/208.
10.5 Il Generale Desaix. Daniele Squaglia, Stampe antiche, Lucca.

11 Marie Louise Elisabeth Vigée-Lebrun, Ritratto di Giovanni Paisiello. Olio su tela, 1791. Museo Teatrale alla Scala. Diploma di composizione rilasciato da Giovanni Paisiello a Domenico Puccini, Accademia Filarmonica, Collezione Masseangeli, Bologna.

12.1 Maria Carolina d’Asburgo, regina di Napoli.
12.2 Luigi Scotti, Il Parnaso, incisione. Museo Teatrale alla Scala, Milano.
12.3 Lettera di Domenico Puccini , Archivio di Stato, Lucca, Legato Cerù 94/19.
12.4 Perizia di Antonio Puccini, Archivio di Stato, Lucca, Archivio De Nobili, 20.

13.1 Il patriottismo in viaggio per la Casa del Diavolo, stampa. Archivio di Stato, Lucca, Archivio Sardini, 189/70A
13.2 Domenico Puccini, Te Deum, 1800. Autogr. Istituto Musicale "L. Boccherini.", Fondo Puccini D14.
13.3 Domenico Puccini, Inno per la resa di Genova, 1800. Autogr. Istituto Musicale "L. Boccherini", Fondo Puccini D15d.
13.4 Inno per la resa di Genova, Archivio di Stato, Lucca, Archivio Sardini 189/75.
13.5 Pianto e lamento della fu Cisalpina, Archivio di Stato, Lucca, Archivio Sardini 188/181.
13.6 Ode alle truppe imperiali, Archivio di Stato, Lucca, Archivio Sardini188/170.