L’ultimo esperimento

L'ultimo quinquennio della vita di Puccini, interamente dedicato a Turandot, non gli bastò per finire il lavoro: fu stroncato da un attacco cardiaco - conseguenza di una disperata operazione alla gola per salvarlo da un cancro - nel mattino del 29 novembre 1924, dopo aver completato l'orchestrazione della prima scena del terzo atto. Aveva fatto in tempo a dipingere in modo indimenticabile il sacrificio per amore della schiava Liù, ma gli mancava proprio lo scorcio decisivo, dove l'amore fra la principessa cinese e il principe tartaro Calaf avrebbe dovuto trionfare.
L'analisi dell'ultima partitura svela la sua piena coordinazione sulla base di numerosi parametri musicali, che le assicurano un grado altissimo di coesione. Il problema della struttura è particolarmente delicato, poiché accanto a un'articolazione tematica e sinfonica emerge con rilievo del tutto peculiare un'ossatura costituita dal succedersi di ‘numeri chiusi'. Questo dato si può utilizzare a sostegno di chi vede nell'opera cinese il volontario epitaffio apposto dall'autore sulla tomba del melodramma italiano, interpretandola come un tentativo di ritrovare l'essenza di un glorioso passato. Ma è altrettanto legittimo ritenere che la crisi novecentesca abbia aperto una lunga fase sperimentale (destinata a non concludersi) della carriera di Puccini, volto a trovare la connessione fra l'apparato del melodramma e le più avanzate esperienze europee del suo tempo mediante lo studio dell'atmosfera e il polistilismo, vere e proprie costanti di un'incessante nella ricerca su generi e forme. In quest'ottica il capolavoro incompiuto è l'esperimento più ambizioso che mai un compositore italiano abbia tentato, prima della svolta ‘radicale' del secondo dopoguerra.
Non esiste un'opera italiana, prima di Turandot, dove si tenti di sviluppare un progetto così organico d'interazione fra musica e scena. Puccini partì dall'idea di ricreare il clima favoloso della Cina antichissima e volle unire strettamente l'elemento esotico al fiabesco mediante una ‘tinta' musicale peculiare. Importa assai poco che molte cineserie melodiche le abbia colte al volo da un carillon: non ebbe pretesa di vera autenticità, né ambizioni filologiche, solo l'intento d'imporre lo straniamento dalle convenzioni vigenti mediante l'originalità dell'invenzione. Quasi un personaggio fra le Dramatis personæ, l'orchestra, trattata con mano da orafo anche nei momenti più barbarici, determina l'atmosfera passo dopo passo. Puccini si espresse al vertice delle sue capacità, e ai massimi livelli possibili nell'Europa di allora, inventando effetti coloristici violenti e preziosi al tempo stesso.
L'immenso apparato musicale è legato a doppio filo alle esigenze dello spettacolo nel suo complesso. Numerose volte Puccini aveva ideato le proporzioni musicali della drammaturgia, e vi aveva fatto corrispondere una dimensione scenica, tanto che in ogni sua opera c'è sempre qualche scorcio grandioso in cui le ragioni dell'occhio instaurano un rapporto di scambio con quelle dell'orecchio. Per Turandot aveva pensato un progetto speciale: l'unità aristotelica di tempo, ingrediente in sé tradizionale, diviene il pretesto per tracciare un percorso nell'arco dei tre atti in cui proprio lo scorrere delle ore assurge a protagonista del dramma acquisendo un valore emblematico. Lo "sgelamento" della crudele Principessa, nodo su cui Puccini metteva in gioco la credibilità del finale, è posto al culmine di un simbolico avvicendarsi di colori, dato da luci costume e scene, che il timbro cangiante asseconda.
Dal punto di vista formale le macrostrutture di Turandot si mostrano ambivalenti. In particolare il primo atto, vero gioiello di coesione, rivela una struttura di foggia sinfonica in quattro movimenti, con un'introduzione lenta e due scherzi (gli episodi dei tre ministri), ma può essere letto secondo l'ottica della cosiddetta «solita forma» del ‘numero chiuso' («1. ‘Tempo d'attacco' 2. Adagio 3. ‘Tempo di mezzo' 4. Cabaletta», POWERS). Rimane il dato di fatto che il finale prevede due arie e un ampio concertato (sestetto con coro); ma anche questa, se pensiamo al finale primo e a quello centrale di Bohème, non è una novità assoluta, e altre volte è facile ritrovare con chiarezza lo scheletro del ‘numero tipo' ottocentesco (come nella pagine conclusive Fanciulla). D'altro canto, sia nell'una che nell'altra ipotesi, si deve tener conto che Puccini impiega temi musicali nel corso dell'intera opera, sia pure in minor numero rispetto al solito, che perlopiù riappaiono in forma di reminiscenza - tranne il violento motto d'apertura, che viene trattato come un Leitmotiv, sulla falsariga di Wagner, e come tale percorre la partitura fino alla morte di Liù.
Sembra dunque più legittimo analizzare l'atto primo come costruito per giustapposizione di episodi, ciascuno con un senso proprio, e l'intera partitura come il prodotto di un metodo compositivo che narra per voluta frammentarietà, ed è questo un tocco di vera modernità, che si aggiunge a tutte le altre conquiste della partitura. Questa chiave di lettura permette inoltre di superare la fittizia contrapposizione fra struttura sinfonica e a numeri, e potrebbe aprire una nuova e più fertile fase d'indagine sull'ultimo capolavoro di Puccini.
Il finale incompiuto di Turandot è viziato dall'insufficiente realizzazione di Franco Alfano, che portò a termine un'operazione necessaria a che l'opera potesse circolare, ma non fu in grado di sviluppare degnamente i ventitré fogli di appunti lasciati da Puccini sul comodino della clinica di Bruxelles, su cui aveva lavorato quasi fino all'ultimo. Ma v'è da riconoscere che l'impresa di un completamento sarebbe stata ardua per chiunque, e che il finale fu comunque un problema anche per lo stesso Puccini che già prima di finire la composizione aveva iniziato a strumentare, ed era pratica davvero insolita rispetto alle sue abitudini. Probabilmente avvertiva la necessità di completare e rifinire quella che legittimamente riteneva la sua musica migliore, per poggiare la conclusione su un forte piedistallo, tale da condizionare l'articolazione del problematico duetto. Puccini stava dunque tentando un'impresa titanica, proiettandosi verso un futuro che era e sarebbe sempre stato la sua mèta, purtroppo non completò il suo ultimo capolavoro, ma se fosse vissuto avrebbe lavorato per eliminare ogni incongruenza, così com'era accaduto altre volte. Ci rimane uno splendido ‘frammento' inconsuetamente esteso, prodotto da un artista in piena forma intellettuale e creativa; lo completa un torso tormentato, in parte criptico, ma dalle infinite potenzialità.